L'impatto con la nuova città, in verità, non fu dei più felici. Si era ai primi giorni di luglio, ed il caldo imperversava ormai in pieno. Dalla fresca e tranquilla Bologna ci trovammo immersi in una specie di Babilonia, fatta di rumori assordanti, nelle strade colme di passanti gesticolanti e vivaci, di sole caldissimo, di ragazzetti vocianti che sbucavano da tutte le parti, uscendo dalle strettissime vie laterali, i famosi vicoli di Napoli, i quali, fra parentesi, ci colpirono vivamente con tutti quei panni colorati che sventolavano appesi da una parte all'altra dei vecchi palazzi fitti fitti di balconcini. Carri pieni di mattoni o di altra pesante merce percorrevano a sbalzelloni il selciato ineguale del largo corso Garibaldi, trainati da grossi, robusti cavalli, altra novità per noi; non ci sfuggì però la bellezza del cielo azzurrissimo, e la delizia del venticello fresco e profumato che a tratti spirava dal mare mitigando l'arsura (noi si andava verso la marina, dove avremmo abitato) e che ci accarezzava piacevolmente il viso.
Tante impressioni contrastanti si contendevano il nostro animo, ma la felicità che irradiava il volto di nostra madre ci compensava di tutto, e subito fummo felici della sua felicità.
Per la prima volta avremmo abitato in una caserma; ciò era dovuto all'obbligo fatto da mio padre della sua presenza continua sul posto di lavoro, dove erano i magazzini viveri militari, dei quali era consegnatario; il suo lavoro consisteva quindi nel consegnare, presenziare e regolare la distribuzione degli stessi ai vari reggimenti e caserme site in Napoli e nella provincia, lavoro faticoso e di grande responsabilità; per esempio, poichè queste consegne, a causa di orari prestabiliti, si dovevano effettuare dalle tre e mezzo alle quattro del mattino, mio padre era costretto ad alzarsi a quell'ora ogni mattina, con il personale addetto, e presenziare e sorvegliare che tutto fosse eseguito alla perfezione!
Giunse finalmente la "carrozzella", tipico mezzo napoletano di trasporto, aperto e tranquillo, nella piazza di porta Capuana, svoltò a destra, e là si fermò; c'era un largo spazio vuoto, davanti al porto, dove si ergeva, è la parola giusta, una specie di grigio castelo merlato, non molto alto, due o tre piani credo e ciononostante piuttorto imponente, con la sua brava torre antica da un lato, ed un grande portone scuro al centro; a destra ed a sinistra di queste, due garitte con due sentinelle, debitamente armate di fucile; una gran quantità di soldati entrava e usciva frettolosamente da questo portone, ed ognuno di loro doveva ogni volta salutare la sentinella, portando la mano alla visiera del berretto.
Questo fu dunque il luogo dove avremmo abitato durante tutto il nostro soggiorno napoletano; in esso erano approntati, oltre al nostro, ancora due o tre appartamenti, per altri ufficiali ed impiegati dei vari servizi, con le loro famiglie, con alcune delle quali stringemmo una grande amicizia.
Abitare in una specie di castello credo sia stato sempre il sogno delle bimbe romantiche, e questo ad un tratto si verificava per noi! Anche se ancora un pò frastornate dal viaggio, questo fatto ci piacque, per quanto la realtà fosse piuttosto diversa dal sogno: niente lussi, niente giardini fioriti, una semplicità davvero spartana dappertutto; c'era soltanto quel via vai di persone affaccendate, militari e civili che animavano l'androne lunghissimo a perdita d'occhio; tuttavia, almeno apparentemente, un castello era pure, e l'appartamento che ci era stato assegnato era piuttosto bello, grande, e con un terrazzo enorme, che prendeva tutto il piano superiore dell'edificio (la nostra casa si trovava al terzo piano) una vastità tale da poterci andare sopra in bicicletta, circondato da alte mura merlate, e che andava da via Marina fino alla piazza della Porta Capuana, l'edificio essendo grandissimo; esso comprendeva infatti, oltre ai magazzini viveri, anche il complesso per la panificazione, con le sue macchine impastatrici, che lavoravano anche di notte, con un ritmo cadenzato, sordo (che mi dava tanta sicurezza, paurosa come ero di eventuali ladri!) ed i grandi forni a legna dove si cuoceva il pane per i soldati (spesso il profumo del pane appena sfornato si spandeva nell'aria ed era delizioso); poi ancora il magazzino vestiario, dove c'erano le divise nuove per le reclute, e naturalmente tutti gli uffici per i vari sevizi.
Tornando al grande terrazzo, certo scorazzare a piacere, con i nostri piccoli amici, su tanto spazio libero, fu almeno per Marcella e me, una grande felicità; per Teresa era diverso, ormai quasi una signorinetta, non prendeva parte ai nostri giuochi ancora un pò infantili, e, come sempre si estraniava da essi; a lei piaceva leggere, più che altro, forse, per esplicare il suo buon gusto ed il suo istinto tutto femminile di dedicarsi ad un lavoro creativo e gentile.
Comunque, ripensandoci, non era poi cosa tanto comune abitare in una caserma, dove la vita dei militari è regolata da vari squilli di tromba, che ben presto imparammo a riconoscere e, perchè no, anche ad amare; c'erano trombettieri bravi, ce la mettevano tutta a suonare con vivacità e precisione, e la cosa ci divertiva sempre; certe volte stonavano miseramente ed allora ridevamo come matte. I segnali più simpatici: il richiamo della sveglia del mattino, molto vivace e brillante, poi quello dell'ora del rancio, cioè il pranzo dei soldati, la classica "la zuppa s'è cotta venite a mangiar"; infine, oltre agli altri richiami, piuttosto numerosi, il più patetico e dolce era certamente il "silenzio", eseguito alle nove di sera, quando tutti i soldati erano rientrati in caserma e bisognava dormire: dolce, disteso e lento, a me piaceva moltissimo.
Tutto questo movimentò subito la nostra vita, in principio, poi l'abitudine attenuò il divertimento, pure ci fu sempre caro ascoltare quelle note musicali che scandivano il tempo, le ore; ci ricordavano una vita che si svolgeva accando a noi, del tutto diversa dalla nostra eppure interessante, piena di animazione e di significato, e ci impediva di sentirci mai veramente soli, era proprio come avere sempre una gradevole compagnia!
In quanto all'epoca di costruzione del nostro "castello" francamente non saprei dire nulla di preciso; in verità credo che più che un vero castello questo edificio sia stato, in lontani tempi, piuttosto una fortezza militare a difesa della costa, contro gli assalitori, per la sua posizione che fronteggiava il mare; indubbiamente era stato restaurato e ricostruito più volte, conservando però, con la sua corona di merli che lo sovrastava, un aspetto inusuale e romantico...Inoltre la torre ad esso attaccata, grande, di colore oscuro e quasi minaccioso, di forma rotonda, con piccole finestre e tante feritoie quasi nascoste, in primavera, da verdi foglie e fiorellini, era certamente molto antica, forse del '500, chissà; pare che sotto il dominio dei Borboni fosse adibita a prigione di stato, ed in essa furono rinchiusi, di volta in volta, i patrioti rivoluzionari dei vari movimenti antiborbonici, fra i quali Eleonora Pimentel Fonseca, che, poveretta, vi risiedette vari mesi prima di essere giustiziata senza pietà.
Del tutto inoffensiva, ormai, la vecchia torre ancora resisteva nel tempo; nelle sue feritoie a centinaia avevano fatto il loro nido moltissimi piccioni, che svolazzavano spesso da una parte all'altra dell'edificio, e, quando a mezzogiorno tuonava nel cielo il colpo del cannone della fortezza di S.Elmo, là, sulla collina del Vomero, e le sirene delle grandi navi attraccate al porto suonavano tutte insieme per segnalare il mezzogiorno, tutta la tribù dei colombi volava in alto nel cielo, ed a stormi faceva numerosi giri intorno alla loro torre, quasi per salutarla e manifestare la loro gioia di vivere!
Ciao Mario devo dire che oltre che dipingere bene sai anche scrivere bene!
RispondiEliminaBuon proseguimento
Franca
Franca! premesso che so crivere bene, megio di quanto sappia dipingere, dovresti cliccare su anteprima in fondo. Non sono io lo scrittore!
RispondiEliminaOk Mario anche questa memoria descrive molto bene quei tempi!Ciao Pio
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